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In Cile siamo tornati indietro di 50 anni.
La gente scende in strada, dimostra, riempie le strade, si abbraccia e intona inni all’unità, alla pace e alla resistenza. Inni divenuti ormai universali: Bella Ciao, El pueblo unido, Give peace a chance, El derecho a la paz.
La stessa cosa succede in altri Paesi dell’America Latina, a Honk Kong, dalla Catalogna all’Etiopia, passando per l’Iraq, per l’Egitto, per l’Algeria, per il Sudan, per Haiti.
Si manifesta per la pace, per il diritto al lavoro, per il diritto ad avere eguali diritti, per la salvaguardia dell’ambiente, contro dittatori.
Si usa la violenza per arginare le manifestazioni. Di nuovo.
Amnesty International ha pubblicato la mappa delle proteste attualmente in essere nel mondo con relative motivazioni e c’è anche l’Italia.
Sì, ci siamo anche noi.
Per la protesta dei balconi contro Salvini, per i pestaggi ai giornalisti durante le manifestazioni di Casapound.
Vista da fuori, direi che in fin dei conti in Italia stiamo bene. Non ci lamentiamo mai. Davvero.
Sui social sì, ma si sa, i social sono un po’ come cantieri aperti e noi siamo come i vecchietti che stanno lì, guardano e criticano, enunciando sempre soluzioni migliori di quelle che sono state adottate. Poi, finita la giornata, a ora di cena, tutti a casa, che magari c’è la partita.
E di questo finto sdegno ci facciamo corazza per simulare intenzione, attenzione, convinzione.
La verità è che mentre il Cile lotta per non tornare agli anni 70, noi osserviamo compiaciuti il ritorno al Ventennio, nostalgici di miti cresciuti dall’ignoranza.
Ci crogioliamo in questo declino e ci illudiamo che staremo tutti meglio.
Anche da noi el pueblo è unito, ma assomiglia tanto alla comunità del Reverendo Jones in Guyana.
E non è finita bene.
No.
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