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Al Parco della Pace di Cava dei Selci, a Marino, dal 2012 ci sono due Selci della Memoria dedicate a Primo Levi e ad Otello Marrucci.
Otello era mio nonno paterno. Il mio preferito, quello con cui sono cresciuta.
Otello Marrucci, classe 1920, fu deportato a Buchenwald l’8 settembre. All’annuncio dell’armistizio, Otello, militare italiano, come tanti altri giovani, andò a festeggiare sotto il Comando tedesco, dileggiando ingenuamente il neo-nemico. La reazione non si fece aspettare e i militari tedeschi li rincorsero fino alla caserma, dove li tennero sotto assedio e sotto il fuoco continuo dell’artiglieria. A sera, Otello e i suoi commilitoni si arresero e da lì furono a breve deportati a Buchenwald, al campo di concentramento.
Mio nonno raccontava spesso, quando ero bambina, dell’odore dell’aria mentre, con il treno, si avvicinavano al campo di sterminio. “L’odore era inconfondibile– mi diceva – di pelle di gallina bruciata. Quando ti dicono che chi viveva lì intorno non sapeva niente, non gli dare retta. Si capiva subito con quell’odore… non potevano non sapere.”
Quando arrivarono, messi in fila nel cortile, l’Ufficiale tedesco chiese chi sapeva fare alcuni mestieri, tra questi il sarto. Mio nonno che aveva imparato a rammendare sotto le armi, si offrì con altri 4 e furono trasferiti nell’edificio principale in cemento, ai piedi delle baracche. Oggi è l’unico edificio ancora in piedi e dentro al quale è stato allestito un museo sul campo.
Davanti alla celletta di 4 metri quadrati al pian terreno, risalendo la collina, c’erano gli orti e poi i forni crematori, sempre in funzione, 24 ore al giorno. Più a destra, le baracche dei prigionieri dove oggi rimangono solo i perimetri delle basi.
I cinque ‘sarti’ dormivano, lavoravano e mangiavano sempre nella celletta, ma nel mangiare erano ‘privilegiati’, in un certo senso. Infatti, invece della solita acqua di cottura delle patate bollite che arrivavano al campo di concentramento con i camion, che veniva servita agli altri, a loro invece davano l’acqua di cottura dei cavoli e delle verze che coltivavano negli orti lì davanti.
Mio nonno mi disse che capire con cosa venivano concimati quegli orti e rinunciare al rancio fu tutt’uno. Non importavano fame e stenti, vedere le ceneri dei forni usate per concimare e proteggere le piante dalla neve era troppo. Fu così che anche per loro arrivò l’acqua delle patate.
Mio nonno teneva un diario della prigionia che riportò dopo essere stato liberato. Annotava, in un italiano stentato ed un tedesco ancora più maccheronico, la quotidianità a Buchenwald.
Il diario si interrompe bruscamente con il disegno di un recinto di filo spinato.
Mio nonno aveva il compito, la sera, di andare di nascosto nelle baracche dei francesi a prendere cibo, a sentire Radio Londra e i messaggi degli alleati. Il percorso era arduo, pericolosissimo, una sorta di labirinto per evitare fari, sentinelle, cani e recinti. Mio nonno ormai lo sapeva a memoria. Ma una sera stava male, febbre alta, fuori temperatura sotto zero e il suo amico più caro si offre volontario di andare al posto suo.
Mio nonno era titubante, preoccupato, ma era importante capire cosa stesse succedendo, gli americani ed i russi si avvicinavano, si diceva che la liberazione del campo era vicina: bisognava essere preparati. I cinque decisero che si poteva fare e uscì l’amico.
Una lunga attesa, un lungo silenzio e poi degli spari. La mattina dopo, aprendo la porta della celletta, mio nonno vide il suo amico ancora penzolante a peso morto sul filo spinato e su quel filo spinato e quel dolore si chiuse anche il suo diario.
Dei tanti episodi che nonno mi raccontava di quel periodo, questi sono sicuramente quelli più toccanti, tanti ormai non li ricordo più, ma uno, quello della liberazione, è rimasto impresso nella memoria di tutta la famiglia.
Con l’entrata dei russi, nel campo c’era caos, si scappava da tutte le parti, i soldati buttavano all’aria i documenti negli uffici e tutti pensavano a salvarsi in qualche modo.
Mio nonno, scappando, passò su un cumulo di documenti che erano stati riversati sulla strada dall’ufficio che si occupava delle esecuzioni e delle matricole ‘chiuse’. Correndo, dopo un po’, si accorse che un pezzo di carta gli era rimasto sotto una scarpa e si fermò per staccarlo. Era il suo stesso documento. I russi erano arrivati appena in tempo.
Mio nonno è morto nel febbraio 1983 a 62 anni. Quando era tornato a casa pesava 40 kg. Io me lo ricordo ben diverso ed in carne.
Visse felice con la famiglia, gli amici, le compagnie di divertimento, però i ricordi del campo di concentramento hanno sempre fatto parte dei suoi racconti, in specie con me, e quando c’era il sole e sedevamo al balcone di casa sua in mezzo ai gerani, con mia nonna che preparava qualcosa in cucina, di solito di domenica, prima iniziava canticchiando Bella Ciao ed io e mio fratello gli andavamo dietro e poi iniziava a raccontare, forse, alla fine, più per sé stesso che per noi.
Francesca Marrucci
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