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Conosco tante persone che mangiano quando sono tristi, quando si sentono sole, quando hanno carenza d’affetto e persino quando si annoiano.
Di solito ci si getta su junk food, come a concedersi quella trasgressione sulla salute che può sublimare un dolore.
Alcuni si buttano sui dolci, sui gelati, sugli snack, sulla pizza. All’università c’era un compagno di corso a Cinese che era fissato con il pollo arrosto. Se era sotto pressione con gli esami, foss’anche luglio, con una Roma che si scioglieva a 40 gradi, lui ingurgitava questi polli bollenti in rosticceria che forse cucinavano solo per lui.
Ho sempre pensato che usare il cibo come sublimazione di un malessere fosse assurdo, per poi accorgermi a 25 anni che l’avevo fatto anche io per molti anni, diventando persino bulimica.
La mia forma di sublimazione tramite il cibo però è legata al ricordo della mia infanzia trascorsa con i miei nonni, Otello e Trieste.
Un periodo felice, sotto ogni punto di vista, a cui mi rivolgo spesso con la memoria per rasserenarmi.
Solo che mia nonna Trieste, diciamoci la verità, non era una gran cuoca.
I menù dei nostri pranzi erano ripetitivi e rassicuranti: pasta burro e parmigiano, fettina in padella, insalata e macedonia. Versione estiva.
Nella versione invernale, al posto della pasta in bianco (che tra l’altro era l’unica cosa che mio fratello mangiava oltre ai würstel e al grasso del prosciutto) c’era il minestrone, che mio nonno Otello adorava e ingurgitava con estrema voracità, incurante del rischio di ustione in bocca.
Del resto conosceva la fame, mio nonno, dopo la guerra e dopo Buchenwald, e mangiare, insieme al giocare a carte, erano per lui i due lussi più importanti della vita.
Inutile dire che i piatti suddetti ancora oggi sono il mio rifugio e le cose che amo di più mangiare.
Mi riportano ad un periodo felice, senza problemi, ai pomeriggi in mobilificio a giocare tra gli armadi e i materassi inventando città immaginarie fatte di ante, specchi, reti e in egual numero di pirati, principi e principesse oppure a disegnare e fare i compiti mentre nonni giocavano interminabili partite a briscola e scopa.
Ai pomeriggi estivi in Villa, quando nonno ci portava a raccogliere i pinoli per nonna (che poi non riesco a ricordare per cosa li utilizzasse). Sotto i pini si sentivano solo gli uccelli e l’odore della resina. Con nonno ci mettevamo su una panchina di pietra a rompere i gusci ai pinoli e ci permetteva di mangiarne uno ogni dieci.
Ancora ricordo il sapore e mio fratello che ne mangiava di più di nascosto.
Ricordo le gite della domenica che non erano veramente tali. Erano solo un nuovo santuario dove assistere alla Messa per poi andare a mangiare in trattoria.
E anche lì, io e nonno prendevamo sempre lo stesso menu: pappardelle panna, piselli e funghi, una bistecca di vitello e insalata.
Ogni domenica la stessa cosa.
Guai a cambiare.
Guai ad assaggiare altro.
Il nostro menù era una sicurezza, la nostra piccola complicità che faceva sì che io potessi anche ordinare per lui se si assentava per andare al bagno quando arrivava il cameriere.
La serenità, la famiglia, la sicurezza per mio nonno si esprimeva nel cibo e io ho assorbito questo suo bisogno più di quanto potessi capire allora.
Persino nel modo di mangiare: in modo veloce, vorace, senza masticare.
Mia madre (che al contrario di mia nonna paterna sa cucinare molto bene) mi chiedeva spesso perché mangiassi così: ‘Me pari tu nonno, ma lui ha sofferto la fame in campo di concentramento, tu che hai sofferto?’
Niente. Anzi forse il Crohn alla fine è stata anche una risposta a tanta voracità. C’erano tante altre malattie che potevano venirmi causa stress, ma me ne è venuta proprio una legata al cibo.
Però in questa voracità, in questi piatti di pasta burro e parmigiano che mi cucino quasi sempre quando sono sola, in tanti minestroni invernali, c’è sempre lui, mio nonno.
Cucinarli per me è un po’ cucinarli per lui e talvolta mi pare che sia lì con me e mangiamo insieme.
E mi basta chiudere gli occhi per rivederlo, per rimanere incantata dal suo sorriso complice, sentire l’odore della sua brillantina mischiata al suo dopobarba, sentire il liscio di quelle sue magliette dai colori spenti e il ruvido dei suoi pantaloni alla carrettiera.
Un amore incondizionato che dura ancora dopo 40 anni dalla sua morte e che mi ha lasciato tanti ricordi meravigliosi che pochi, semplici piatti mi fanno rivivere, regalandomi pezzetti di gioia perduta.
Allora ecco che un piatto di pasta in bianco diventa un mondo perduto di pomeriggi di sole e nostalgia, di abbracci e colori, di profumi e storie e canzoni e serate davanti alla tv e cartoni animati e le Rosse Rossana e il carillon con ‘Tu sei romantica’ vicino al telefono che aprivo almeno 30 volte al giorno…
E allora lo faccio ancora come allora, alzo lo sguardo dal piatto e cerco il suo, sicura della sua approvazione, sicura che gli faceva piacere che io comprendessi quella sua gioia nel poter mangiare quello che gli piaceva, seppur semplice, sicura che è sempre lì accanto a me e mi sorride, invitandomi ad una nuova forchettata.
Buon appetito nonno. Tvb. Ora forse più di prima.
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